UNA DELLE DECISIONI PIÙ IMPORTANTI DELLA MIA VITA

Ore 08:00. Domenica 13 Luglio 2014. Finale del World Padel Tour di Castellón

Suona la sveglia alle otto del mattino, ma il mio corpo mi chiede un altro po’ di riposo. L’ultima settimana ho avuto impegni agonistici al massimo livello, con partite che hanno lasciato il segno dal punto di vista fisico, come la semifinale di ieri contro Maxi Sánchez e Sanyo Gutiérrez. Nel mio corpo suonano campanelli d’allarme, ho bisogno di più tempo per recuperare. Ma non è possibile. Mi aspetta una grande finale e devo convincerlo che ancora manca la battaglia finale e che quindi i dolori che sento non sono così gravi e che se ne andranno durante il riscaldamento prima della partita… Anche se in fondo so che si tratta di una bugia.

In parte soffro di dolori muscolari dovuti alla stanchezza dei tornei, ma a questi bisogna aggiungere quelli cronici, che mi logorano in seguito agli oltre vent’anni di carriera professionistica. Comunque non mi resta altra scelta che preparare il mio corpo per ciò che ci aspetta: una finale a cinque set contro la coppia numero due al mondo, Pablo Lima e Juani Mieres. Loro sono molto più giovani di me e Juan Martín, ed hanno una voglia incredibile di toglierci il primato di coppia numero uno. Per questo daranno tutto ciò che hanno per vincere ogni punto, senza risparmiare energie.

La realtà è questa e bisogna accettarla. Le lamentele le lasciamo a dopo, ora invece bisogna soltanto prepararsi per la battaglia.

Mi alzo dal letto ed appena metto il piede per terra ho la sensazione che migliaia di vetri si stiano infilando nella pianta. È un dolore ormai familiare che fa parte di me e che mi ha accompagnato ogni giorno negli ultimi due anni. Intuisco che rimarrà con me per sempre come un amico fedele. Fino a quando non cammino per un po’ ed il sangue non inizia a circolare, sento queste punture, questi aghi che sfondano la mia pelle fino a raggiungere i muscoli e le ossa. Questo però mi fa reagire di colpo. Subito dopo inizio istintivamente a piegare il gomito destro, che anch’esso incomincia il giorno irrigidito e con dolore. Poco a poco, con movimenti molto lenti, inizia a scaldarsi ed il dolore passa.

Anche questo fa parte della vita di un atleta di alto livello: lo sforzo continuato al quale hai sottoposto il tuo corpo durante tutta la carriera finisce per reclamare vendetta.

Il dolore fisico che sento quando mi sveglio mi fa ritornare al passato, ai miei ricordi. Questo incubo degli infortuni iniziò alla fine del 2012, quando fui costretto ad operarmi al gomito. Pensai di non potere più tornare a giocare a padel a livello professionistico. Ma non andiamo troppo in fretta, questo lo spiegherò più avanti. In seguito a quell’infortunio sono stato costretto a non giocare pean"n giocar cinque mesi ed al mio ritorno in campo, già a 2013 inoltrato, iniziai la stagione con una fascite plantare che poi mi sono portato dietro per tutto l’anno.

Dopo il torneo de La Coruña, a fine Giugno di quell’anno sono dovuto stare a riposo assoluto per venti giorni, sotto trattamento. Le mie condizioni erano così gravi che non potevo nemmeno appoggiare il piede destro a terra.

Il calendario del World Padel Tour ha un ritmo talmente serrato che fui costretto a rientrare senza essermi ripreso completamente. Non partecipare al torneo significava perdere il primato mondiale e né io né il mio compagno eravamo disposti a ciò, poiché avevamo lottato troppo duramente per restare in vetta dodici anni consecutivi. Non potevo permettere che un maledetto infortunio potesse rovinare tutto.

Fu una stagione molto difficile. In tutta la mia carriera non avevo mai sofferto di infortuni così importanti. Inoltre, il fatto di giocare per tutto l’anno torturato dal dolore mi stava mettendo a dura prova, non soltanto fisicamente ma anche psicologicamente. Non potevo allenarmi come mi sarebbe piaciuto, con la solita intensità. Oltretutto mi portavo addosso quel tormento durante tutto il giorno, perfino quando mi riposavo. Era come avere perennemente un ago infilato nel mio corpo ed un po’ alla volta tutto ciò mi stava portando all’esaurimento.

La fascite plantare è una patologia molto difficile da curare. Esistono trattamenti diversi, ma non sai mai quale sia quello adatto a te. Molte persone non riescono a riprendersi completamente. Questo dolore può diventare cronico, appare e poi scompare, a volte è doloroso, a volte meno, ma non smette mai di minacciarti, come una bomba ad orologeria, che non sai quando scoppierà, ma sai che lo farà perché si continua a sentire il tic-tac del suo meccanismo.

Inoltre, nelle semifinali del Master di Madrid a Dicembre del 2013, l’ultimo torneo della stagione, il mio piede sinistro che era quello sano, disse basta. Per sei mesi lo avevo caricato molto più del normale per colpa dei dolori che avevo sofferto in quello destro. Quindi, in piena semifinale, si ruppe la fascia plantare al novanta per cento. Nonostante tutto vincemmo la partita e passammo in finale. Così fui costretto a giocare con la fascite plantare al piede destro e rottura della fascia al piede sinistro. Quasi niente, vero?

Ciò nonostante giocai quattro set, ma dopo purtroppo fui costretto al ritiro. Sanyo Gutiérrez e Maxi Rodríguez giocarono una grande partita e si meritarono la vittoria del torneo.

Bela:

Il recupero dei due infortuni fu faticosissimo. Per fortuna iniziavano le vacanze e non sarei dovuto tornare a competere se non dopo qualche mese. Ciò mi consentì di riposare e di trattare i miei problemi fisici.

Ma quell’inferno di fine stagione si allungò per molti mesi ancora. Dovetti camminare con l’aiuto di due stampelle per oltre venti giorni: non potevo appoggiare i piedi a terra. Dopo di che mi sottoposi ad una serie interminabile di trattamenti, tutti molto dolorosi, per tentare di curare i miei infortuni. Pieno di dubbi: sarei stato fisicamente e psicologicamente pronto per iniziare la stagione successiva, quella del 2014, che ormai era sempre più vicina?

Tutto ciò mi faceva riflettere ancora di più e mi chiedevo: per quanto tempo avrei giocato ancora con il mio compagno Juan Martín?

Avevamo detto di continuare insieme, almeno nel 2014 e nel 2015, ma io non ne ero più sicuro. Era da un anno e mezzo che sentivo avvicinarsi la fine della nostra coppia, ma in fondo non volevo ammetterlo.

Giocare con il mio compagno, che secondo me è il migliore giocatore di padel della storia, è stata una fortuna e ne sono orgoglioso. Basta soltanto dare uno sguardo ai nostri numeri per vedere che fare coppia con lui è stata la migliore decisione che abbia preso nella mia carriera professionistica.

Nonostante ciò, lo sforzo che abbiamo fatto partita dopo partita ci ha portato a farci pagare le conseguenze, come stava dimostrando il mio fisico ridotto piuttosto male. Essere il compagno di gioco di Juan ti costringe a coprire moltissimo spazio in campo; devi esprimerti fisicamente al massimo livello. E questo sforzo, anno dopo anno, ha procurato i suoi danni. Sono state due stagioni terribili, durante le quali mi sono trascinato gli infortuni al gomito ed in entrambi i piedi. In tutto questo tempo non ho mai smesso di chiedermi se fosse una buona idea quella di continuare a giocare insieme. Dal punto di vista sportivo e d’immagine, non c’era alcun dubbio su questo. Dall’altra parte, il fatto di cercare un altro compagno che non mi richiedesse tanto sforzo fisico mi avrebbe permesso di allungare di più la mia carriera. Se i guai fisici fossero continuati come nelle due ultime stagioni non sapevo per quanto ancora avrei potuto resistere ai massimi livelli. Sicuramente non molto.

Comunque tutti questi pensieri rimasero nascosti in una parte della mia mente per tanti giorni, per diversi mesi. Probabilmente non avevo il coraggio di fare quel passo. Non mi sentivo preparato a prendere la decisione più difficile della mia carriera ed ancora di meno nel momento in cui i risultati erano così buoni. In dodici anni nessuno era stato capace di toglierci lo scettro di numeri uno al mondo. Quindi che senso aveva dividersi? Decisi di lasciare da parte questa idea per concentrarmi soltanto nel recupero in vista della stagione successiva, quella del 2014, nella quale avrei continuato a giocare con Juan.

All’improvviso sento un suono. È il mio cellulare, lo guardo e mi avvisa che domani dovrò chiamare un amico per fargli gli auguri di compleanno. Poi torno con la mente qui dove sono, in questa stanza di un hotel di Castellón, dove spero di mitigare i miei dolori ai piedi ed al gomito, per vestirmi, scendere a fare colazione e poi iniziare la mia fase di concentrazione.

Tra poche ore devo disputare una finale. Non posso pensare ad altro, devo giocare al massimo delle mie capacità, concentrarmi su ogni singolo punto della partita.

Scendiamo tutti e tre a fare colazione: Juan, Miguel Sciorilli (il nostro allenatore) e io. In genere ai tornei non ci ritroviamo insieme la mattina presto. Un fatto che colpisce molto la gente, che crede che non abbiamo un buon rapporto, ma non è così. Semplicemente ognuno di noi fa ciò che desidera, al di sopra dell’unione che abbiamo in campo.

Dopo tredici anni siamo quasi come sposati, uniti dal rispetto e dall’affetto reciproco. Abbiamo però bisogno dei nostri spazi, come tutti. Non facciamo nulla contro la nostra volontà. Se vogliamo sederci assieme, lo facciamo. Altrimenti, ognuno fa le sue cose e questo non compromette per nulla il nostro rapporto.

Questa volta però dobbiamo affrontare una finale e rimangono pochi giocatori (la maggior parte se ne va dopo essere stata eliminata dal torneo), per cui ci sediamo tutti e tre insieme.

Mangiamo lo stesso di sempre: abbastanza carboidrati da resistere per tutta la partita, qualche proteina e soprattutto beviamo molto per idratarci.

Dopo la colazione andiamo in camera e prepariamo la borsa per la finale. Io lascio pronta anche la mia valigia, perché sono uno di quelli che appena finisce la partita prende il primo treno o aereo per tornare a Barcellona. Dopo una settimana fuori di casa, ho solo voglia di rivedere mia moglie ed i miei figli.

Lasciamo la stanza dell’albergo, facciamo il check-out e alla porta ci sta aspettando la trasportation, che ci accompagnerà al campo.

Dieci minuti dopo entriamo nel palazzetto dello sport di Ciudad de Castellón. Sebbene passiamo da una porta diversa a quella del pubblico, c’è già gente che ci accoglie nel parcheggio. Ci aspettano per fotografarsi con noi, per chiederci autografi... A me piace molto il contatto con la gente. Sarò sempre molto grato per avere ricevuto tanto appoggio e stima, per tutto l’affetto che mi hanno dato durante la mia carriera.

Alcuni minuti più tardi entriamo nel palazzetto ed andiamo direttamente nello spogliatoio, dove metto a punto le mie racchette. Ne porto sempre tre con me, ed una volta che le ho preparate, non permetto a nessuno di impugnarle per nessun motivo. È una mania che ho acquisito durante tutti questi anni, c’è perfino chi la considera una superstizione.

Mi vesto ed inizio a scaldarmi, dopo di che mi metto le cavigliere. Inizio sempre da quella sinistra, è un altro dei miei riti pre-partita. Una volta pronto, tento di isolarmi da tutto per iniziare a concentrarmi. Cerco di visualizzare le possibili azioni di gioco in cui potrei intervenire. Ho bisogno di avere il controllo del punto e questo succede soltanto se si è a contatto con la pallina. Per cui la visualizzo e provo a far sì che questa focalizzazione duri durante tutta la gara: devo entrare in gioco il più possibile.

Ora mi sento pronto. Non devo fare quelle fastidiose visite dal fisioterapista prima e dopo la partita, come succedeva lo scorso anno.

Anche se ancora sento dei disturbi dei quali non mi libererò mai più, i dolori ai piedi dopo cinque mesi di trattamento sono diminuiti abbastanza. Nel 2014 ho giocato molto meglio rispetto all’anno precedente, quando fu un vero incubo. Abbiamo iniziato la stagione in maniera incredibile: abbiamo vinto a Barcellona, Badajoz e Córdoba. Ora, a Castellón, ci aspetta la nostra quarta finale consecutiva.

Nonostante i meravigliosi risultati, nella mia mente continua a risuonare quella voce che non riesco mai a zittire e continuo a chiedermi per quanto tempo ancora giocherò a fianco di Juan.

Il momento è arrivato, il nostro percorso ci ha portati a disputare una nuova finale. Quando leggo le nostre statistiche nei giornali continuo a rimanere sorpreso per tutto quello che siamo riusciti a fare. Conosco diversi giocatori fortissimi che non sono mai riusciti a disputare nessuna finale e questo dà ancora più valore al fatto di averne disputate tante. Comunque mi sento soprattutto orgoglioso del fatto che né io né il mio compagno abbiamo mai abbassato la guardia. Continuiamo a dare tutto, come se ogni partita fosse quella più importante della nostra carriera.

Siamo nel sottopassaggio, aspettando che inizi a suonare la musica. Il grande speaker ed amico, Óscar Solé, ci presenterà da un momento all’altro per farci entrare in campo.

Inizia lo spettacolo.

Non potete immaginare ciò che si prova quando senti il tuo nome attraverso gli altoparlanti del palazzetto, esci camminando dal sottopassaggio e saluti la gente che riempie gli spalti con la musica a tutto volume e tutto il pubblico che canta il tuo nome. È come un’iniezione di pura adrenalina. Se non sei al massimo delle condizioni fismicndizioniche e mentali quei momenti ti fanno battere il cuore con più forza, si accendono tutte le luci e sai che la battaglia sta per iniziare. È giunta l’ora che la mente ed il corpo siano a pieno rendimento. Da questo momento in poi, non ci sono più amici. L’amicizia che c’è tra i giocatori del circuito rimane fuori dal campo. Può soltanto vincere una coppia. Bisogna dare tutto fino all’ultimo respiro per assaporare il gusto della vittoria un’altra volta.

Dobbiamo affrontare Pablo Lima e Juani Mieres, la coppia numero due al mondo. È la quarta finale consecutiva contro di loro e nelle tre precedenti siamo riusciti a batterli, sebbene con un enorme sforzo. Vogliamo vincere ancora e non sarà per niente facile. Dobbiamo essere al cento per cento dal primo minuto, senza scuse.

Inizia il primo set. Giochiamo contro una coppia di fuoriclasse. Stavolta però il giocatore di sinistra, Juani Mieres, non è un “picchiatore” nato. Non fraintendetemi, se gli dai un pallonetto facile, la manda ovviamente fuori dal campo e fa il punto. Per “non picchiatore” voglio intendere che non è come Miguel Lamperti o Paquito Navarro, che alla prima occasione tentano di fare uscire la palla dal campo. Juani ha molta pazienza e tira forte soltanto quando è il momento giusto. Ciò lo rende ancora più pericoloso. Rischia poco e quindi sbaglia pochissimo. Non a caso fa parte della coppia numero due al mondo.

Quando affrontiamo una coppia con queste caratteristiche, di solito la strategia è che Juan esegue un pallonetto al giocatore che sta a sinistra e poi viene subito a rete. In questo modo riusciamo a far sì che il giocatore che subisce il pallonetto, in questo caso Juani Mieres, cambi gioco facendo uno smash su di me; così io posso iniziare a scambiare da fondo campo, mentre il mio compagno è già a rete, in posizione d’attacco.

Nel primo set riusciamo ad imporre un ritmo molto alto. È una delle nostre caratteristiche: cercare di comandare lo scambio con la nostra velocità fin da subito. Vinciamo il set: 6-2 eppure non mi sento a mio agio. Non so cosa stia succedendo, ma sento che qualcosa non sta andando come dovrebbe.

Inizia il secondo set e loro incominciano a fare più pressione, riuscendo a farci commettere diversi errori non forzati ed a vincere 6-3. È ovvio che non stiamo giocando bene, abbiamo commesso degli errori inusuali e dentro di me non mi sento bene. Se perdo perché gli avversari hanno giocato meglio di me, mi complimento con loro e il giorno dopo mi alleno per migliorare in modo che non accada più. Invece se perdiamo perché non stiamo dando tutto oppure perché abbiamo calato il ritmo o non siamo concentrati, come sta succedendo in questa finale, allora non mi sta più bene e questo non me lo perdono. In questo caso divento spietato.

E la cosa peggiore è che ci stiamo incolpando degli errori a vicenda perdendo la concentrazione nel gioco. In una finale contro la coppia numero due al mondo queste disattenzioni si pagano. E così perdiamo anche il terzo set: 6-3.

Non capisco che cosa ci stia succedendo, ma ngioedendo,on ci guardiamo quasi mai in faccia. La tensione si nota ad ogni punto, in ogni errore non forzato, in ogni cambio campo in cui ci sediamo senza neanche parlare né guardarci, aspettando che passi il tempo per rientrare in campo.

Inizia il quarto set: o la situazione cambia oppure la partita finisce qui. Non ci sono più le parole d’incoraggiamento che di solito ci diciamo prima di rientrare in campo. Anzi, ora i rimproveri sono sempre più cattivi. Sto dicendo delle cose assurde al mio compagno, del tipo: «Com’è possibile che in quasi tredici anni non hai ancora imparato a rispondere alla battuta?». So che Juan in una partita può sbagliare una o due risposte ad ogni gioco, ma è sempre stato così da quando abbiamo iniziato a giocare insieme oltre un decennio fa. Anch’io commetto un sacco di errori. Oggi però ho il coraggio di dire quella sciocchezza in faccia ed in piena partita a colui che considero il migliore giocatore della storia, al mio compagno di sempre, al giocatore con il quale sono stato per tanti anni il numero uno.

Iniziano a suonare diversi campanelli d’allarme. Non poteva succedere altro, se non perdere anche il quarto set: di nuovo 6-3. Pablo e Juani vincono così il torneo di Castellón.

Logicamente, dopo la partita e la premiazione, tutto si risolve e si ritorna alla normalità. Credo che da quando ci conosciamo Juan e io non abbiamo mai discusso fuori dal campo. Ciò nonostante, nel viaggio di ritorno a Barcellona la voce che rimbomba dentro di me si fa sempre più insistente, diventa impossibile da fermare. Devo comunicare al mio staff che non giocherò più con Juan.

Dopo essere stato per un anno e mezzo a valutare tutto, dopo ciò che è successo stamattina nella finale del torneo, finalmente capisco che si è trattato di un avvertimento e che il mio subconscio ha già preso la decisione di non continuare. Però finora ho finto di non saperlo, perché è una scelta ardua, anche se necessaria.

Spero che possiate capire quanto è difficile prendere una decisione del genere. Entrano in gioco non soltanto il fattore emozionale e quello affettivo, ma anche quello sportivo. Dall’altro lato sorge il dubbio su chi sarà il mio compagno l’anno prossimo. Anche se è ovvio che finirò il 2014 con Juan, che cosa succederà dopo? Potrò trovare un compagno sufficientemente competitivo da lottare per il primo posto in classifica?

Con tutte queste domande, il mio “io” più pratico mi ripete: «Bela, non ti separare». Ma nella vita ci sono cose più importanti. Vengo da una famiglia molto umile, dalla quale ho imparato ad essere felice con poco. Non posso sopportare che l’amicizia o l’immagine che diamo in campo siano danneggiate se la nostra situazione continua a prolungarsi artificialmente o se forziamo troppo il fatto di continuare a giocare insieme.

Per cui, indipendentemente da ciò che mi dice il mio “io” o dai consigli di tutti coloro con i quali parlo di quest’argomento, prendo la decisione professionalmente più difficile della mia vita. Erano due anni che meditavo su questo ed ormai non posso più fare marcia indietro. È irreversibile.

Non ho dubbi: il 2014 sarà l’ultimo anno che giocherò con Juan Martín Díaz.

Ora manca solo la parte più difficoltosa: dirglielo.

Il giorno dopo mi alzo ancora una volta con il dolore ai piedi e al braccio. Chiamo il nostro allenatore, Miguel Sciorilli, ed il nostro psicologo sportivo Óscar Lorenzo, per annunciar loro la decisione che ho preso. So benissimo ciò che devo dire a Juan, ma non so quando e come lo devo fare. Per questo decido di appoggiarmi a Miguel ed Óscar, per agire nel modo più corretto. Oltretutto, sono sicuro che loro sapranno consigliarmi. Siamo a metà anno. Non possiamo rovinare quest’ultima stagione. Abbiamo iniziato molto bene a livello sportivo e sarebbe un bellissimo sogno finire alla grande, come coppia numero uno al mondo per il tredicesimo anno consecutivo. Ma questo ora è secondario, ci sono cose più importanti.

Dopo una lunga conversazione, capiscono che la mia decisione è chiara. Mi dicono che il momento migliore per comunicarglielo sarà al di fuori di un torneo; possibilmente alla mattina a colazione, il momento in cui Juan è più recettivo e calmo. Penso che andrò a Madrid a parlare con lui. Ma ci aspettano i tornei di Málaga e Marbella, per i quali dovremo stare fuori casa due settimane e per questo decido che il momento migliore sarà dopo Málaga e prima d’iniziare Marbella.

Sabato 26 Luglio, Torneo di Málaga

Perdiamo la semifinale contro Maxi Sánchez e Sanyo Gutiérrez per 7-6, 6-7, 6-3. Per cui la domenica non dobbiamo giocare e ci possiamo riposare. Il nostro allenatore Miguel non smette di dirmi che sono teso per paura di affrontare Juan, ma che devo parlarci il prima possibile.

Credo che questa volta abbia ragione.

Lunedì 28 Luglio

Ogni anno, quando andiamo a Málaga per giocare il torneo, un nostro caro amico, pilota di Air Europa, Ronie Toledano, ci invita a cena per un “asado” a casa sua. Ci andiamo tutti, compresa la famiglia di Juan (i suoi genitori, sua moglie e suo cognato). Siamo quasi trenta persone. È incredibile quanto ci divertiamo ogni anno a casa di Ronie… Ma quest’anno qualcosa è cambiato: sono teso e la consapevolezza della separazione imminente non mi permette di rilassarmi. Ho deciso di approfittare di un qualche momento della serata per chiedere a Juan di fare colazione insieme il giorno dopo, perché gli voglio parlare.

Miguel, che sa quello che devo fare, non mi toglie lo sguardo di dosso. Penso che il mio volto sia un libro aperto in cui si può leggere perfettamente la parola “tensione”. Lui si rende conto di quanto sto soffrendo. Sembra quasi una situazione irreale, come se dovessi lasciare una fidanzata di tutta la vita: “Dobbiamo parlare. Le cose non vanno bene. Ci incontriamo domani?”.

Durante la cena, non smetto di osservare tutto quello che mi circonda: chi ride, chi scherza, i gesti di affetto… Mi domando se il prossimo anno avverrà la stessa cosa. Faremo questo asado in casa di Ronie, anche se Juan e io non giocheremo insieme? Non lo so, non me lo posso nemmeno immaginare, ma spero proprio di potere continuare a fare questa cena per molti anni ancora. Indubbiamente i momenti come questi sono quelli che ci ripagano dei tanti sacrifici fatti durante la nostra carriera. Sarebbe spiacevole doverli perdere a causa di una decisione che oltretutto ho preso io. Pensare a tutte queste cose mi ha fatto innervosire ancora di più.

Per un istante fisso lo sguardo sul mio compagno. Sta ridendo per qualcosa che ha detto Ronie. Tra le gambe sostiene sua figlia, che con le sue manine non smette di toccargli il viso per richiamare la sua attenzione. Questa bambina è un amore. Quando li guardo, mi rendo conto quanto rimpiango i miei tre figli e mia moglie. Come vorrei che fossero qui con me... Senza essere consapevole di ciò che faccio, prendo il cellulare e guardo l’immagine che ho sullo schermo: una foto di famiglia in cui ci siamo tutti e cinque. Quando sei fuori di casa per tanto tempo lontano dai tuoi, un’immagine, una chiamata o un semplice messaggio possono ridarti la vita.

E la cena trascorre così, tra gli scherzi, le barzellette, le curiosità… Si avvicina il momento della verità.

Dopo i dolci, il caffè, il mate ed una lunga chiacchierata, finisce la cena. Iniziano i saluti. Domani dobbiamo allenarci e quindi non possiamo toglierci troppe ore di sonno, dobbiamo essere nelle giuste condizioni.

Ad un certo momento vedo che Juan si separa dal gruppo. Penso che vada a cercare alcune borse che aveva con sé e penso: “È il momento giusto!!”.

Mi avvicino a lui molto deciso e spero che nessuno ci interrompa. “Juan, domani possiamo fare colazione assieme? Devo parlarti”.

Per un momento resta zitto, con uno sguardo incredulo. Penso di non avergli mai chiesto di parlare in questi dodici anni e mezzo. Sembra abbastanza sorpreso, ma mi dice che è d’accordo.

Faccio un bel respiro profondo: ce l’ho fatta. Ho fatto il primo passo. Ma come mai è tutto così difficile? Perché deve esserlo. Devo dire che ci separiamo alla persona con la quale ho condiviso tantissimi momenti, belli e brutti. Quando iniziammo a giocare insieme eravamo scapoli. Ora invece siamo sposati ed ognuno di noi ha tre figli che abbiamo visto crescere reciprocamente. Lascio il compagno con cui sono stato il numero uno al mondo per tanti anni. Siamo diventati la coppia da battere, insieme abbiamo passato un terzo della nostra vita. Non è dura, è durissima.

Fatico a prendere sonno. Continuo a pensare a che cosa dirò domani a Juan. Ho perfino fatto mentalmente le prove del discorso. Sono incredulo, per alcune cose sono molto deciso ed invece su questa ho un sacco di difficoltà... Ciò nonostante alla fine crollo e riesco ad addormentarmi.

Mi alzo, eseguo il solito saluto ai miei piedi ed al mio braccio dolorante, mi vesto e vado al ristorante Reserva del Higuerón, dove abbiamo preso appuntamento per parlare e da dove, dopo, andremo ad allenarci.

Arrivo al ristorante. È venuto anche Miguel, ma appena entro cambia tavolo. Ci dice di parlare, di prenderci il tempo necessario, senza fretta. Ciò mi rende più tranquillo. Preferisco essere solo con il mio compagno in un momento così, anche se più tardi si unirà il nostro allenatore ed amico per darci il suo parere. Lui è qualcosa di più che un semplice preparatore fisico.

Mi siedo. Juan, ancora un po’ incredulo, si siede anche lui. Miguel è a tre tavoli più a destra che guarda il suo telefonino. Siamo soli, faccia a faccia.

Da vicino è più facile vedere la realtà. Il tempo è passato per entrambi. Non siamo più quei giovani di venticinque e ventidue anni che s’incontrarono in un ristorante di Madrid tredici anni fa per decidere se giocare insieme. È l’ironia del destino! La storia si ripete. Ci sediamo di nuovo uno davanti l’altro per decidere del nostro futuro, stavolta non più per unirci ma per separarci.

Quanti punti, vinti e persi, sono passati da quel primo torneo? Quante gioie e delusioni abbiamo vissuto in questi tredici anni? Sto crollando, non so se avrò il coraggio di dirglielo, ma non è possibile fare marcia indietro. Siamo seduti uno davanti all’altro ed è arrivato il momento della verità. Sarò capace di articolare qualche parola?

Il silenzio si fa eterno e ruota attorno a tutto ciò che ci circonda. Almeno non riesco a percepire neanche un suono estraneo a me ed a Juan. Saranno andati via i camerieri? La tensione si potrebbe tagliare con un coltello. Ci vorrebbe un po’ d’acqua, ma non vedo nessuno cui chiederla. Le pulsazioni mi vanno a mille, il cuore risuona nelle mie costole come un tamburo che anticipa il momento decisivo, della massima sincerità. Bisogna rompere il ghiaccio. Guardo da una parte e dall’altra. Quando sto per aprire bocca, senza sapere il motivo, sembra che tutto si sia fermato. Come se il tempo si fosse congelato. La mia mente viaggia verso il passato, ma stavolta molto più indietro. Torno alla mia infanzia. Come se fossi in un film, inizio a vedere come tutto era cominciato ed a ricordare tutte le decisioni che ho dovuto prendere fin da piccolo per arrivare qui, a questo momento.

Improvvisamente, mi trovo in Argentina, nel mio paesino, Pehuajó, dove tutto iniziò trentacinque anni fa…

LA FAMIGLIA

Bela:

—È molto difficile iniziare da ciò che più rimpiango…

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MIO PADRE JORGE

Mio padre non si pronuncia mai quando una cosa la fai bene, ma è il primo a sgridarmi per non essermi assunto la responsabilità quando qualcosa va storto e per non aver ottenuto il successo sperato.

Ogni volta che vincevo una partita non mi diceva mai che avevo giocato bene e non mi elogiava. Quando perdevo invece oppure quando riteneva che non avessi fatto il mio dovere a livello sportivo, mi rimproverava con questa frase: “Comportati da uomo, vai a parlare con il tuo compagno e digli che non sei stato professionale come lui si sarebbe meritato”.

Ricordo spesso le chiacchierate in famiglia a tavola, durante le quali lui diceva sempre che non ci avrebbe lasciato in eredità niente di materiale, perché il suo lavoro bastava soltanto per coprire le necessità di ogni giorno, ma che ci avrebbe lasciato la cosa migliore che un padre può lasciare ad un figlio: un cognome con il quale avremmo potuto camminare per strada a testa alta, perché quel poco che avevamo era stato ottenuto grazie al lavoro, all’onestà e a moltissimo sacrificio.

Non dimenticherò mai quel giorno di Settembre del 2012, quando mia sorella Natalia e io gli scrivemmo una lettera per i suoi sessanta anni. In quella lettera gli facemmo sapere che il nostro obiettivo di vita era che i nostri figli ci volessero la metà del bene che noi vogliamo a lui.

Jorge Belasteguín:

Da piccolo Fernando era un vero terremoto. Inquieto, nervoso, sempre ad escogitare quale poteva essere la prossima marachella… Era un vero monello e quando veniva scoperto riusciva con grande talento a sfuggire e far finta di “non avere mai rotto nemmeno un piatto”.