cover

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone vive o defunte, luoghi o fatti reali è puramente causale.

WOLFRAM FLEISCHHAUER

ROSSO COME IL MARE

Eco thriller

Traduzione di Simone Buttazzi

Dello stesso autore:

Il bosco silenzioso

Titolo originale: Das Meer

© 2018 by Droemersche Verlagsanstalt Th. Knaur Nachf. GmbH & Co. KG, Munich, Germany

The book has been negotiated through AVA international GmbH, Germany (www.ava-international.de)

www.wolfram-fleischhauer.de

© 2019 Emons Verlag GmbH

Tutti i diritti riservati

Italian edition by arrangement with

Il Caduceo di Marinella Magrì Agenzia Letteraria

Prima edizione: maggio 2019

Impaginazione: Rossella Di Palma

Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-96041-503-9

Distribuito da Emons Italia S.r.l.

Viale della Piramide Cestia 1c

00153 Roma

www.emonsedizioni.it

PROLOGO

Quando aprì gli occhi, era tutto buio. Si rese conto di essere madida di sudore, anche se del proprio corpo aveva una percezione vaga. Chiuse gli occhi, li riaprì. Nessun cambiamento. Cercò di muovere le gambe, le braccia, ma gli arti non le obbedivano. Poi una vibrazione le percorse la pelle. Attorno a lei tutto si sollevò e ricadde lievemente. Tentò ancora di muovere le braccia e stavolta accadde qualcosa. Prima avvertì una resistenza, poi un dolore improvviso che la immobilizzò. Calma, disse tra sé. Non è niente. Hai le braccia addormentate. Il sangue ricomincia a circolare. Tutto qui.

Ma non era tutto. Al contrario! Aspettò e tese l’orecchio, mentre tentava di distinguere qualcosa nel buio pesto. Cosa le era capitato? Cos’era quel ronzio, quella vibrazione? D’un tratto udì un colpo, e senza il benché minimo preavviso si alzò un verso stridulo, il grido trascinato di una creatura sovrannaturale. Sussultò e lanciò un urlo nel momento in cui un dolore inedito, che non riuscì a inquadrare, le fulminò le membra. Respirando a fatica, provò a muovere un poco gli arti con una prudenza ancora maggiore, ma a immobilizzarla era qualcosa d’implacabile che le straziava la pelle a ogni movimento e le bloccava la circolazione. Le sembrava di avere degli aghi piantati nelle braccia e nelle gambe.

La cena nella mensa! Era l’ultima cosa di cui riusciva a ricordarsi. Quanto tempo era passato? Un secondo, violento colpo contro la parete fece tremare il posto in cui era stesa. Bumm! Lo stomaco si contrasse istintivamente in risposta al sollevamento e alla caduta del suo corpo nel buio. Bumm. Bumm. La parete d’acciaio dietro di lei rintronò. Pur sapendo che era inutile, legata com’era, cercò di tirarsi in piedi e alzò la testa il più possibile. Pian piano si rese conto di dove si trovava. Era nella sua cabina, all’interno dello scafo. Le giunsero all’orecchio, attutiti, degli ordini in forma di strepiti. Poi udì lo sbuffo e il rombo metallico di un motore. Doveva essere un’altra nave. Stavano trasbordando, non c’erano dubbi. Ma prima che potesse rifletterci, lo scafo s’inclinò e qualcosa nella cabina si rovesciò sferragliando. Le urla all’esterno si fecero più forti. Un nuovo colpo esplose contro la carena e le provocò un sussulto. A causa dell’inclinazione, in circostanze normali sarebbe subito rotolata giù dalla cuccetta, ma i lacci la tennero ferma, le strozzarono di nuovo la circolazione e le torturarono la pelle come un coltello spuntato. Ma il peggio non era quello. Il peggio era che qualcosa di ruvido le stava scorrendo sul petto. All’inizio non capì. Quando però la coperta, centimetro dopo centimetro, le scivolò di dosso e poté sentire gli spifferi, strabuzzò gli occhi. Era nuda come un verme! In preda al panico, tentò di liberarsi e urlò per il dolore che ogni movimento le infliggeva. Ma a coprire quel suo urlo intervenne un nuovo, assordante verso stridulo, che stavolta riuscì a decifrare. Era il furioso uggiolio del metallo contro altro metallo.

Iniziò a respirare a scatti. Sentiva freddo. Cercò di tranquillizzarsi, di non muoversi, di mettere ordine nei ricordi. Aveva cenato con loro, questo se lo ricordava. L’ostilità dell’equipaggio non le era certo sfuggita. Quegli sguardi. Quelle provocazioni. Ma ci era abituata, le era già capitato altre volte. Si era comportata come sempre, senza reagire. Aveva preso il cibo ed era tornata in cabina per riordinare i campioni e aggiornare il registro. Poi però cos’era successo? Quel suo stato d’intontimento poteva significare solo una cosa: l’avevano narcotizzata! E dopo? Le venne la nausea. Cercò di ispezionarsi, ma non riuscì a distinguere nulla. Eppure la certezza cresceva dentro di lei a ogni secondo che passava. Notò che da qualche minuto stringeva istintivamente le cosce, come se potesse servire a qualcosa ormai. Ebbe un conato di vomito. Le facce dei marinai le sfilarono davanti. Disperata, scosse la testa come per liberarsene. Quanto ci aveva messo a perdere conoscenza? Quei grugni! Cosa le avevano fatto? In quanti? O uno soltanto? Soltanto!

Era rimasta in stato d’incoscienza ore o giorni? Aveva perso il senso del tempo. La gola era secca, aveva il voltastomaco. Era stesa in una cabina senza oblò a bordo di un peschereccio, due metri sotto la linea di galleggiamento, da qualche parte nel nord dell’Atlantico. Era tutto ciò che sapeva con certezza.

Iniziò a sentire crampi alle cosce. Tentò di rilassarsi e di pensare con lucidità, ma non riusciva a concentrarsi. Le scappò un gemito, un gemito disperato e rabbioso, così strano alle sue orecchie che per poco non si spaventò. Subito dopo la colse di nuovo il panico. Le fiale! Per quanto fosse inutile, fissò l’oscurità, tentando di distinguere gli oggetti sul tavolino contro la parete opposta della cabina. La distanza era scarsa, poco più di un metro separava il letto dov’era stesa dalla postazione di lavoro. Continuava a non vedere nulla. Batteva i denti. Il gelo si faceva largo sul suo corpo nudo e l’aver sudato sotto quella coperta pungente accelerava il processo.

Pian piano le tornarono in mente altri dettagli. Quella strana sensazione che aveva provato al ritorno in cabina. Non era semplice stanchezza. Pensò a tutto ciò che le avevano raccomandato durante la formazione. “Fate scomparire i vostri laptop,” l’avevano avvertita. “Appena potete, distruggete ogni documento. Buttate a mare anche i campioni e non dimenticate: voi siete l’unico poliziotto a bordo e nessuno, davvero nessuno, vi vuole lì. È già capitato che narcotizzassero gli osservatori. O peggio ancora.”

Il ritmo del respiro aumentò. E se avessero trovato le fiale, facendole sparire? Era riuscita ad arrivare in cabina per conto proprio o era collassata prima? Non lo sapeva.

“Ehiii!” gridò. La voce, rauca, s’interruppe presto. Deglutì e contrasse il volto per il dolore. Aveva la gola in fiamme. Raccolse la saliva, deglutì ancora, inspirò profondamente e ci riprovò: “EHIII!”

Il baccano là fuori continuò come se nulla fosse. Erano passi sul ponte quelli che sentiva? Un motore tossicchiò, probabilmente un argano. Ma nei pressi della cabina non si mosse nulla. Fu sul punto di urlare ancora, poi ci ripensò. Chiunque fosse entrato, l’avrebbe vista in quelle condizioni. Nuda. Profanata. S’impennò finché il male agli arti per poco non le fece perdere i sensi. Il freddo, il dolore, il senso d’impotenza e di umiliazione la paralizzavano. Rifletti, rifletti! Devi uscire da qui prima che arrivino loro. DEVI!

L’argano tossicchiava. Le grida si susseguivano qui e là. Il moto ondoso doveva essere molto forte, visto che la nave si alzava e ricadeva senza sosta. Devo andarmene, pensò. E ancora: le fiale! Sono al sicuro?

Cercò di capire che cosa la bloccava. Per due volte si fermò a causa del dolore. Poi la falangetta s’imbatté in qualcosa di duro, una stretta cinghia lievemente scanalata che le affondava nella carne. L’accarezzò ancora poi s’interruppe, rassegnata. Era una fascetta serracavo. Non aveva speranze. Da sola non si sarebbe mai liberata.

Con gli occhi spalancati per la paura tese ancora l’orecchio nel buio pesto. Riuscì a immaginare chiaramente, minuto dopo minuto, che cosa stava succedendo sul ponte. L’oscurità le acuiva i sensi. Conosceva quei rumori. Il fracasso che tornava a farsi sentire regolarmente, insieme alle lievi scosse che le percorrevano tutto il corpo, poteva significare solo una cosa: la nave stava caricando. Da chi? E perché lì, con quel mare grosso? Udì dei passi. Sebbene sapesse di essere del tutto inerme, solo in quel momento fu davvero presa dal panico. Scattò un chiavistello, poi la pesante porta metallica si spalancò. Non riuscì a vedere nulla: una torcia puntata direttamente sul suo viso la stava accecando.

“Chi è?” urlò, cercando di sembrare coraggiosa. Ma la voce le tremava. Il fascio di luce si spostò lentamente sul suo corpo. “Porco!” gridò. “Fatti almeno vedere, porco vigliacco!”

L’uomo misterioso sulla soglia, intento a scandagliarla come un animale sul banco del macellaio, non aprì bocca. Il volto le si rigò di lacrime. E adesso? Le sarebbe piombato addosso uno di quei bestioni depravati? Si stavano dando il cambio e toccava a lui?

“Vieni qua, razza di codardo,” urlò. “Immagina che io sia tua sorella o tua madre. Allora sì che ti diverti sul serio. Dai, cosa aspetti?”

Neanche lei sapeva da dove le venissero quelle parole disperate cariche di disprezzo, ma qualcosa gliele stava facendo sputare fuori. Il fascio di luce tornò sul suo volto e si avvicinò d’improvviso. “Buonanotte, troia,” sentì dire, in spagnolo.

Un attimo dopo qualcosa le punse la coscia sinistra. La luce continuò ad accecarla, poi gli arti si fecero sempre più pesanti e collassarono in pochi secondi.

Un’onda potente scosse la nave, ma non poté più sentirla.

Il messaggio di allarme arrivò al centro operativo per le emergenze marittime di Falmouth alle 4:37. Il capitano aveva spedito con la selettiva la denuncia di scomparsa, poi inoltrata via satellite alla stazione di coordinamento competente del sud dell’Inghilterra.

La Valladolid, un peschereccio congelatore del tipo Atlantik 333 battente bandiera spagnola, si trovava al momento della chiamata in posizione 52° nord, 23° 48’ ovest. Il radiotelefonista si mise subito in contatto col capitano e registrò tutti i dati. Un membro dell’equipaggio era andato disperso. L’esatto momento della scomparsa era sconosciuto: se n’erano accorti appena un’ora prima. La persona dispersa era una donna di trentatré anni in buone condizioni di salute. Non si sapeva se addosso avesse una tuta di sopravvivenza o un giubbotto di salvataggio, ma era improbabile, visto che a bordo non mancavano giubbotti e la nave non stava pescando. Era stata vista l’ultima volta dopo cena, tra le sette e le otto, in abiti borghesi nei pressi della sua cabina. Poco dopo le quattro del mattino era stata notata la porta aperta, non forzata, della cabina stessa. Il vano era vuoto, la luce sul soffitto accesa. Una ricerca sottocoperta non aveva portato a nulla. Dopo aver allertato il ponte di comando per una conta immediata, la nave era stata perquisita da cima a fondo senza successo. Si temeva che la donna fosse caduta in mare.

Dopo l’inserimento di tutti i dati a disposizione iniziò il calcolo dell’area di ricerca ipotetica. Tenendo presente il percorso della Valladolid nelle ultime ore, la sua velocità, la posizione al momento dell’allarme, la forza del vento e le correnti, l’area aveva più o meno le dimensioni del Lussemburgo. In base ai calcoli si arrivò a una lista delle navi che si trovavano nei pressi e l’allarme venne loro inoltrato insieme all’esortazione di tenersi pronti per un salvataggio. In breve arrivarono le risposte di quattro navi, insieme agli orari previsti di arrivo nell’area indicata.

La centrale di Falmouth trasferì il coordinamento delle operazioni alla nave da carico canadese che sarebbe arrivata per prima, anche perché disponeva di personale a sufficienza. La nave giunse in zona alle 7:12. Durante la mattinata altre imbarcazioni corsero in aiuto, tra cui una nave passeggeri, una nave cisterna, una nave da carico, due navi non ancora identificate – che si rivelarono essere imbarcazioni militari francesi – e due pescherecci. Fino a sera setacciarono sistematicamente l’area prefissata.

Il capitano della Valladolid contattò la propria società armatrice a Vigo, che prese l’impegno di informare senza indugi i congiunti dell’osservatrice portoghese circa la sua scomparsa. L’Organizzazione per la pesca nel nord-ovest dell’Atlantico, la NAFO, per conto della quale la donna lavorava, sporse il giorno stesso una denuncia contro ignoti presso la procura di Pontevedra. La società intimò alla Valladolid di interrompere immediatamente le azioni di pesca e fare ritorno al porto di Vigo. Il caso venne affidato alla Commissione spagnola permanente per le indagini sugli incidenti marittimi, la CIAIM.

Al calar della notte, malgrado le ricerche scrupolose, non era stato avvistato alcun naufrago. Alle sette di sera l’azione venne sospesa.

1. RENDER

La cappella di Nossa Senhora da Luz a Carvalhais era un piccolo, semplice edificio bianco con un basamento dipinto d’azzurro, una porta color mattone e tre vetrate legate a piombo. Una croce in pietra si ergeva sopra il timpano. Il lato destro della cappella era stato costruito un po’ più largo, così all’altezza della grondaia vi era uno sporto con una piccola torre campanaria. Dentro però la campana non c’era, del resto non serviva più. Al suo posto era stato sistemato perpendicolarmente un palo con tre megafoni appesi.

Erano questi a far echeggiare da non molto tempo lo scampanio per le Lodi, la Sesta e i Vespri, ma Johann Render non lo sapeva. Faceva ben poco caso ai dintorni. Era appena arrivato a Carvalhais con una Polo noleggiata a Lisbona, in aeroporto. Sulla piazza del villaggio aveva chiesto della cappella e l’aveva trovata senza problemi, anche se non aveva capito né le indicazioni, né tantomeno i gesti.

Parcheggiò davanti alla chiesetta, scese e si diresse subito alla porticina rossa. Era chiusa ma non sbarrata. Abbassò la maniglia. La porta cedette con un lieve scricchiolio, spalancandosi verso l’interno. Entrò. L’aria era viziata, e capì subito perché: su un piccolo altare laterale alla sua sinistra, sotto un’effigie della Madonna, c’era un imponente cumulo di candele che, sottoposto alla corrente, ondeggiò per un attimo. In lontananza poté udire, ovattata, la campana della chiesa del villaggio che segnava le ore. A parte questo, nella minuscola casa del Signore vigeva il silenzio più assoluto. Era solo, lo sguardo diretto all’altare, e aveva il respiro affannoso.

Nessuno era al corrente del suo arrivo. Era partito senza alcun preavviso. L’attesa straziante delle notizie e la certezza, sempre più probabile ogni giorno che passava, che ogni speranza fosse perduta gli avevano reso impossibile restare con le mani in mano a pregare, cosa che già aveva fatto in due occasioni. E che probabilmente avrebbe rifatto a breve. Piano, come per paura di essere ridotto in cenere, si avvicinò al piccolo altare. C’era una foto di lei, sorridente, doveva risalire ai tempi dell’università. Un berretto di lana copriva i lunghi capelli, così si vedeva solo il volto giovane e bello. Era in piedi sulla prua di una barchetta in legno piegata di lato e guardava trasognata un punto dietro la macchina fotografica. Lo stomaco gli si rivoltò ma non distolse lo sguardo, anzi, si costrinse a osservare tutto con attenzione. C’erano dei fiori freschi e altri già appassiti che nessuno, evidentemente, osava togliere.

Quanto sarebbero rimasti lì? si chiese. Nel caso dei dispersi in mare non si aspettavano dieci anni prima di dichiararli morti. Al massimo sei mesi. Teresa veniva da una famiglia di pescatori. Gli abitanti del luogo sapevano bene che chi non era a bordo al momento dell’attracco non riappariva quasi mai.

Un libro delle condoglianze giaceva accanto alla foto e aveva poche pagine ancora vuote. Lo sfogliò e lesse. Render non sapeva il portoghese, ma colse comunque il senso della maggior parte dei messaggi di cordoglio. Qualcuno aveva disegnato una faccina piangente, incollandoci sotto una breve poesia. Aprì il libro alla prima pagina, e vi trovò una frase scritta con una calligrafia irregolare e poco allenata: “Il mio cuore è con te, nella tua tomba fredda e umida, e ti riscalda con tutto il mio amore. Mamã”.

Le lettere scarabocchiate cominciarono ad annebbiarsi davanti ai suoi occhi. Si sedette su una panca di legno, estrasse un fazzoletto, ma lo tenne semplicemente in mano lasciando scorrere le lacrime. Cosa avrebbe scritto, se solo ne fosse stato capace? Lei non c’era più. E lo stesso valeva per lui. Appena due anni prima la vita gli aveva fatto un regalo inimmaginabile. Adesso glielo avevano tolto.

La chiamata lo aveva strappato dal sonno. La voce femminile era assolutamente calma. Un quarto alle sei. Gli era bastato vedere il nome sul display e aveva subito intuito che doveva essere successo qualcosa di importante.

“Vivian?”

“John.”

Yes?

Solo il modo in cui aveva pronunciato il suo nome!

What’s happened?” chiese lui con un misto di impazienza e timore. “Perché mi chiami a questa stramaledetta ora del mattino?”

“Non lo sai ancora?”

“Cosa non so? Che succede, Vivian?”

La collega aveva esitato per un millisecondo. O era il panico montante a rallentare tutto attorno a lui?

“Teresa è dispersa.”

Render si svegliò di colpo.

“Cosa?” farfugliò.

“Ho appena ricevuto la notizia,” la sentì continuare come attraverso un fruscio. “È successo questa notte. Stanno già mettendo insieme una flotta per le ricerche. Con la luce del giorno setacceranno l’area.”

D’improvviso ebbe difficoltà a respirare. Voleva dire qualcosa, ma non ci riuscì. Rimase seduto col telefono in mano e fissò la penombra della camera da letto senza dire una parola.

“Ora vado in ufficio,” annunciò lei.

Non riuscì a replicare.

“John?”

“Sì,” ansimò.

“Per ora non sappiamo nulla di più. Teresa è un’osservatrice esperta. Sono in contatto con tutte le centrali, t’informo subito appena so qualcosa. Sai dove trovarmi.”

“Sì,” ripeté con un fil di voce. “Grazie.”

“A dopo.”

Vivian aveva riagganciato. Lasciò cadere la mano. Il telefono sbatté sul pavimento in legno. Doveva essere così quando si perde un braccio o una gamba. All’inizio non si prova alcun dolore, solo un semplice panico attutito. Ma quando volle alzarsi cominciò a tremare. Sentì qualcosa di caldo tra le cosce. Si precipitò in bagno, riuscì a mettersi sul water ma appena si sedette il tremito peggiorò. Ondate di brividi si susseguivano lungo la schiena. Ansimava. Il cuore gli batteva a mille. Il petto si alzava e si abbassava come telecomandato, sembrava che qualcuno volesse fracassarlo. Teresa dispersa! Nel nord dell’Atlantico! Si lanciò sul lavandino e vomitò.

In qualche modo riuscì a farsi una doccia e a vestirsi. Era avvolto da un senso d’intorpidimento, d’irrealtà. Tutto gli pareva appannato, ovattato, finto. Rimase in piedi in cucina fuori di sé, smarrito. In ufficio, pensò. Devo andare subito in ufficio.

Barcollando raggiunse il salotto e si lasciò cadere sul divano. Era successo quanto di più mostruoso e inconcepibile. Teresa dispersa. Pianse. I minuti passavano. Pian piano si fece giorno. Un grigio giorno di novembre. Il mormorio del traffico di Bruxelles penetrava attutito dalle finestre. Doveva andare in ufficio. Forse quella notizia era falsa?

Indossò il cappotto, afferrò la borsa, chiuse la porta a chiave. Sembrava tutto normale. Per un millesimo di secondo s’illuse di aver fatto un brutto sogno. Ma quando si mise al volante nel garage sotterraneo, il tremito ricominciò. Salì piano lungo la rampa, attese che la saracinesca scomparisse nel soffitto e s’infilò nel traffico di Avenue Louise.

Al suo piano c’era un silenzio di tomba. Quasi nessuno si faceva vedere prima delle nove, ed erano appena passate le otto. Percorse il corridoio deserto, aprì la porta dell’ufficio e d’improvviso non seppe più cosa ci facesse, lì. Accese la luce meccanicamente e avviò il computer. Fuori udì d’improvviso dei passi. La porta si aprì. Davanti a lui si stagliò Vivian Blackwood. La sua capa era cerea. Per alcuni secondi non volò una mosca. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma le labbra gli tremavano troppo.

Vivian chiuse gli occhi per un po’ e scosse il capo.

“Non c’è ancora nessuna certezza. Una mezza flottiglia la sta cercando. È…”

“Da quante ore, Vivian?” la interruppe. “Da quante?”

Lei non rispose.

“Sei, sette?” si rispose da solo. “Sai bene quanto me che ci vogliono pochi minuti.”

“Passeremo al pettine ogni metro cubo, John. Noi…”

Alzò la mano per interromperla di nuovo.

“Grazie, Vivian. Ma qualunque cosa facciamo, non tornerà indietro. E quello che non abbiamo fatto…”

La voce lo tradì. Il cellulare di Vivian pigolò due volte, ma lei non reagì.

“Devo salire, John,” annunciò. “Farò il diavolo a quattro per ottenere ogni informazione. Ti prometto che faremo tutto il possibile. Tutto.”

“Grazie.”

Lo abbracciò, e il suo profumo lo avvolse. La guancia di lei, premuta per un attimo contro la sua, sembrò innaturalmente fresca. Lo lasciò andare, la mano cercò quella di lui e la strinse. Lui lasciò fare. Vivian non lo aveva mai abbracciato. Anzi, non si era mai spinta oltre la scrivania. E ora gli stava stringendo la mano.

Lo aspettava forse tutta una mattinata così, via via che altri arrivavano e venivano a sapere cos’era successo? Teresa, la sua fidanzata, dispersa. Molto probabilmente affogata nell’Atlantico. Ben presto la notizia si sarebbe diffusa in tutto il palazzo. Fissò il computer, dove si stavano aprendo di continuo le finestrelle delle mail in arrivo. L’oggetto era sempre quello: “A Johann RENDER Section C/2 GD MARE Fisheries conservation and control – Atlantic and Outermost Regions”. Gli stavano scrivendo tutti. Neil della APFO, Gregg della NAFO, persino Viktor Bach dell’Interpol. Aprì le prime mail e le scorse. Si somigliavano tutte, esprimevano sconcerto e vicinanza ma anche la determinazione ad andare in fondo e pretendere spiegazioni esaustive. Render chiuse il programma di posta e fissò la parete dirimpetto, dov’erano affisse delle cartoline con una serie di motti cretini, come “Non chiedere mai di cosa sono fatte due cose: la politica e le salsicce.”

Uscì dall’ufficio, spense il telefono e andò nel garage sotterraneo. Viaggiando in senso contrario alla gigantesca coda mattutina che arrancava verso il centro di Bruxelles, riuscì a raggiungere alla svelta la E40 attraverso i tunnel. Direzione Gent. Il sole lacerò le nuvole e splendette sui campi e i boschi ai lati dell’autostrada. La carreggiata opposta era intasata senza speranza fino a Ternat. Passata Gent, svoltò nella provinciale e la seguì fino alla costa. A Breskens parcheggiò in un’area desolata sull’argine. L’acqua plumbea si stendeva fino all’orizzonte, dove il mondo sembrava terminare in una sporca nebbia bianco-grigiastra. Per tutta la mattinata camminò lungo le dune. A Cadzand pranzò tardi, lasciò metà del cibo nel piatto e bevve solo il vino bianco, che lo stordì piacevolmente. Al ritorno, i clacson e la scia dei pendolari si erano spostati nell’altra direzione e guidò di nuovo senza problemi, anche se i suoi pensieri si facevano sempre più bui e disperati. Riaccese il telefono, ma i messaggi confermarono solo quel che sapeva già. L’avevano cercata un giorno intero e alle 19 le ricerche erano state interrotte. Sui media nazionali e internazionali l’incidente non trovava spazio. Solo su internet se ne parlava, ma interruppe la lettura dopo pochi paragrafi. Vivian gli mandò un messaggio: aveva il resto della settimana libero, e se poteva fare qualcosa per lui doveva solo chiedere.

Fare? Sì, che cosa?! Tornato a Bruxelles, per la disperazione andò al cinema. Ma non funzionò. Indifferente a quel che passava sullo schermo, non faceva che vedere lo stesso volto e uscì dopo mezz’ora. In preda all’indecisione, mosse qualche passo verso Porte de Namur, scartò l’idea di andare in birreria e si trascinò invece verso la macchina nel garage sotterraneo.

Come distrarsi, come non impazzire? Un groppo in gola gli impediva quasi di respirare e fece fatica a inserire la tessera nella fessura della cassa automatica da tanto gli tremava la mano. Poi ritrovò l’auto, si sedette nell’abitacolo ma rimase fermo senza far nulla. Davanti a lui si stendeva un panorama spettrale di macchine vuote, colonne di cemento e luci fioche. Tutta colpa sua, gli rimbombava nel cervello. Colpa sua se era morta! Poco importava cosa dicevano gli altri. Afferrò il volante, lo strinse finché le nocche non divennero bianche, e aspettò che il groppo in gola si sciogliesse pian piano. Poi avviò la vecchia BMW e serpeggiò lungo la stretta rampa a chiocciola. Due settimane prima era ancora seduta accanto a lui. Avevano cenato in un piccolo ristorante in Rue de la Régence per poi tornare al parcheggio lungo Rue de Namur passando per il Petit Sablon. L’aveva preso a braccetto. Si ricordava ancora il suo profumo. I capelli sciolti. A tratti, a causa del vento, una delle sue lunghe ciocche gli era arrivata in faccia. Quel ricordo era insopportabile. Accelerò, strisciò contro la parete ricurva della rampa, frenò di colpo e procedette a passo d’uomo fino alla sbarra. Infischiandosene del graffio sul parafango, inserì il biglietto nella colonnina e s’immise nel traffico serale.

Non ci volle molto. Il suo appartamento era in un moderno condominio degli anni Trenta alla fine di Avenue Louise. Pur non essendo granché, era al quarto piano con vista su Square du Jardin du Roi e aveva le finestre a vetro triplo, così quando erano chiuse il baccano della strada principale con le sue tante corsie gli arrivava attutito. La sua vita si svolgeva prevalentemente nella parte posteriore della casa, dove si trovavano il bagno, la cucina, lo studio e la camera da letto. Il salotto e la sala da pranzo non li usava quasi mai. Le feste appartenevano ormai al passato. Di rado le aveva organizzate per sua scelta. A pensarci erano state quasi sempre le due ex mogli, con le quali aveva trascorso rispettivamente sedici e due anni.

Aveva tre figli dal primo matrimonio. Le due ragazze vivevano con la madre nei Paesi Bassi, il figlio maggiore frequentava l’università negli Stati Uniti. Con la seconda moglie, una giurista austriaca conosciuta a una conferenza a Vienna, era finito tutto dopo appena due anni. Almeno non avevano avuto figli. Per quanto gli sembrasse assurdo a ripensarci, dopo ogni matrimonio aveva subito comprato casa, lanciandosi nelle ristrutturazioni per mesi e mesi. E dopo ogni divorzio aveva subito venduto, la prima volta guadagnandoci, la seconda registrando una perdita tale da cancellare il guadagno della prima transazione. Ormai percepiva come fastidiosa qualsiasi forma di proprietà. Non voleva legarsi a nulla. Persino i vestiti li avrebbe volentieri presi a nolo. Il suo periodo a Bruxelles era bell’e finito. Al contrario di alcuni colleghi che sul finire della carriera accalappiavano ghiotti contratti di consulenza per rendere ancora più succosa la pensione, continuando più o meno a fare quel che avevano sempre fatto, lui avrebbe messo la parola fine al suo impegno in Europa.

Da tempo non aveva la benché minima idea di dove sarebbe andato poi. In Germania non conosceva più nessuno. Aveva sempre flirtato con gli Stati Uniti, accarezzando l’idea di trasferirsi vicino al figlio, col quale andava d’accordo. Oppure Amsterdam. Il rapporto con le due figlie era invece difficile. Da piccole erano state ampiamente esposte al veleno sputato per anni dalla loro madre dopo il divorzio. Si rifiutavano addirittura di parlargli in tedesco, un’assurdità visto che il suo olandese era passabile ma non sopportava l’idea di comunicare con i figli in una lingua straniera. Da quasi trent’anni era obbligato a parlare ogni santo giorno inglese e francese. Ormai ne aveva fin sopra i capelli. Così come di molte altre cose.

“Sei stanco di stare all’estero,” gli aveva detto Teresa. Una frase chiara e semplice, come se il suo medico gli avesse detto che aveva il diabete. Non una malattia mortale, ma uno stato di salute destinato a limitarlo per tutta la vita. “Devi tornare a casa,” gli aveva spiegato. “Nel tuo mondo. Con la tua lingua. Qui vivi come in una stazione lunare. Non si può essere solo europei. È troppo astratto. Bisogna anche esserlo. Ma se si è solo europei, non basta. Prima o poi precipiti nell’abisso.”

Entrò nell’appartamento buio, chiuse la porta e si sentì assalire da un vuoto senza fine. Casa? Dov’era casa sua? Con lei, si era convinto, tutto avrebbe preso una piega nuova. Con Teresa il futuro era ridiventato un libro aperto. Forse si sarebbe sistemato a Lisbona. O avrebbe girato il mondo insieme a lei, aiutandola nei suoi progetti. A volte se l’era immaginato così. Ma adesso? Tutto finito! Dispersa. Caduta in mare. Nessun indizio d’interferenze esterne. Andò in cucina, si concesse un bicchiere di vino rosso da una bottiglia mezza piena e appoggiò il cellulare su un dock accanto al microonde. Dopo pochi secondi la musica per piano di Bill Evans riempì la stanza. Ascoltò il brano, poi ripose il bicchiere e pensò seriamente di prendere la rincorsa verso il salotto per lanciarsi contro una delle vetrate.

Quando era venuta a trovarlo a Bruxelles, si era fermata spesso alla finestra per guardare la strada sottostante. Col cappotto. I jeans. Una volta seminuda, solo con una coperta buttata sulle spalle. Le piaceva quella vista sulla variante belga degli Champs-Èlysées. Il paragone con Parigi ovviamente non reggeva, eccezion fatta, forse, per le tre ore canoniche di traffico al mattino e per i maniaci dello shopping a caccia di marchi di qualità che affollavano la strada durante il resto della giornata. Solo dopo la chiusura dei negozi l’area si spopolava. E dopo le nove arrivavano le prostitute.

Si sedette e si prese la testa tra le mani. Gli sembrava di avere nel petto un enorme buco invisibile, attraverso il quale soffiava il vento. Doveva continuamente deglutire senza alcun motivo. Come poteva andare avanti così? E perché mai avrebbe dovuto farlo? Il giorno dopo non sarebbe dovuto andare in ufficio in Rue Joseph II. Non avrebbe dovuto soffrire lungo Avenue Louise, tunnel dopo tunnel fino a Rue Belliard, come aveva già fatto mille volte. Niente documenti. Niente sedute. Alle undici un altro collega avrebbe accompagnato Vivian alla Commissione di bilancio. L’appuntamento al Centro tutela consumatori? L’incontro con l’inviato della Commissione pesca del Parlamento europeo? Tutto rimandato alla settimana successiva. Un’intera settimana!

Si alzò e andò nello studio. Il monitor del computer si accese appena mosse il mouse e con un lieve ronzio si avviò l’hard disk del backup. Nel giro di tre minuti trovò il collegamento più rapido per Carvalhais. Prese un biglietto per il primo aereo per Lisbona e noleggiò un’auto. Poi preparò una valigetta, prenotò il taxi per andare in aeroporto alle sei, ingoiò una pastiglia per dormire e andò a letto.

Così quel suo stato di choc si trasformò d’improvviso in fanatico attivismo, un turbinio in cui tutto gli sembrava andare al rallentatore. L’aereo del mattino era atterrato alle undici a Portela, e mezz’ora dopo era già al volante dell’auto. La tratta aveva richiesto meno di due ore e adesso si trovava nella cappella del luogo dove Teresa era nata e cresciuta. Quindi? Che fare? Aspettare ancora? Ma cosa di preciso? La consolazione? Qualche segno che lei, grazie a un’inconcepibile buona sorte, era resistita abbastanza a lungo in acqua da essere salvata da un’altra nave?

Si obbligò a rialzarsi, si avvicinò di nuovo all’altare e osservò quelle innocue testimonianze di vicinanza, lutto e disperazione. Trovò il suo certificato di nascita, un pezzetto di carta con la foto di un bebè. Teresa Maria Carvalho. 14 aprile 1989. Sotto vi era incollato un batuffolo lanuginoso di capelli infantili. Lì accanto giaceva una catenina d’oro con una croce.

Pensò a come dovesse sentirsi la madre. Il padre. Pensò ai fratelli e alle sorelle di lei. Non li conosceva. Solo dagli aneddoti. Nessuno della famiglia lo aveva contattato. Non sapevano nulla sul suo conto. Prese una candela nuova da un contenitore d’alluminio appoggiato accanto al libro delle condoglianze, l’accese con una di quelle quasi consumate e la conficcò sullo stoppino morente, nella cera liquida. Dopo pochi secondi lasciò la presa, controllò che fosse stabile e si voltò.

Quando uscì dalla cappella, in giro non c’era anima viva. Il cielo era di un azzurro luminoso, l’aria mite e fresca allo stesso tempo. Inspirò profondamente, si mise al volante e aspettò. Dopo un po’, un paio di figure si avvicinarono dal paese. Due donne vestite di nero e un giovanotto con pantaloni di velluto marrone a coste, una camicia di flanella a quadri e una giacca di pelle consumata. Render non si mosse. Passarono davanti all’auto senza fare caso alla sua presenza. Lui in compenso osservò i loro volti. Le donne erano anziane, gli occhi vacui, privi di espressione. Il ragazzo sembrava piuttosto giovane. Aveva il passo sicuro, una chioma fitta di capelli neri e occhi scuri, onesti, curiosi. Forse era suo fratello, pensò tra sé. Ma non trovò la forza di scendere e rivolgere loro la parola. Entrarono nella cappella, la porta si richiuse e tutto tornò come prima. Il cielo si stendeva immenso sopra di lui. Il vento spazzava i campi circostanti facendo fluttuare l’erba. Accese il motore e partì.

2. TERESA

From: teresa.carvalho@lusoweb.pt

To: john.render1412@hotmail.com

Sent: Sunday, November 08, 2015 16:34 PM

Subject: Valladolid

My love,

da due giorni sono sulla Valladolid. Dio mio, che differenza rispetto all’Ariana! Già l’imbarco è stato una catastrofe, delle onde pazzesche, e il capitano ha fatto di tutto per organizzarmi un’accoglienza inequivocabile, virava sempre controvento adducendo presunti problemi di manovra.

Non mi faccio illusioni. Le due settimane sulla Valladolid saranno dure. Mi sento come uno sceriffo disarmato nel Bronx, circondato da loschi figuri che mi lanciano occhiate inequivocabili. Per fortuna, stavolta ho una cabina con la chiave e la certezza che molti occhi sono ufficialmente puntati su questa nave. Quindi non oseranno mettermi le mani addosso. Ma non lo chiamerei certo un bel posto di lavoro.

Il morale dell’equipaggio è pessimo, ma non solo perché hanno inviato un controllore sulla nave. Donna, per giunta. I marinai sono superstiziosi, come sai bene. E chi non riesce a pisciare oltre il parapetto col vento forza cinque non è il benvenuto a bordo. Sul ponte ho visto due vecchie paia di forbici impolverate dietro la consolle di comando, classico rimedio contro le fatture delle streghe. Mah, ora purtroppo hanno a bordo una strega con un dottorato in biologia marina. E quelle forbici non serviranno granché.

Credo però che l’umore del capitano non sarebbe stato molto migliore anche senza di me. Sono in mare da cinque giorni e i risultati sono penosi, 40% in meno del previsto, il che mi sorprende, armati come sono di un arsenale di dispositivi che farebbe invidia a una portaerei per la guerra elettronica. La nave è davvero vecchia ma ben tenuta, un peschereccio congelatore di sessanta metri con un equipaggio di trentasette uomini. La portata massima è di quasi duecentocinquanta tonnellate. Hanno una macchina che produce dalle dieci alle dodici tonnellate di farina di pesce al giorno e una per l’olio di fegato che arriva a quattro. Insomma, una vera e propria macchina natante per la distruzione dei pesci. Ho preso dei campioni nelle stive e trovato pesci giovani sessualmente maturi. La spirale della catastrofe continua imperterrita e Madre Natura impazzisce. Certe specie non ce la fanno più a portare i piccoli fino alla maturità sessuale, perché li peschiamo dappertutto troppo presto. Ma la natura lancia un segnale d’allarme e ricorre al rimedio estremo per la sopravvivenza: bambini capaci di riprodursi! Forse vale la pena parlarne al prossimo Consiglio Agricoltura e Pesca, prima che le signore e i signori ministri degli stati membri approvino il prossimo massacro a colpi di quote.

Allo stato attuale delle cose la Valladolid sarebbe più redditizia se ci si limitasse a rottamarla. Consuma otto tonnellate di olio pesante ogni giorno, nove quando rimorchia. Malgrado le sovvenzioni per il diesel, secondo i miei calcoli il costo del carburante supera la resa del pescato. E poi ci sono gli stipendi, decisamente penosi. Finché le reti sono piene, all’equipaggio, che ha una percentuale sui guadagni, può ancora convenire. Ma ormai le reti piene sono un miraggio, e l’umore va di pari passo. Il capitano ha già dato disposizioni per risparmiare su tutto: cibo, alcol, sigarette. You get the picture: marinai frustrati sottoposti a estreme pressioni economiche, stipati nel Nord dell’Atlantico su una nave che vale poco meno di un milione e che trascina la propria rete in lungo e in largo su un fondale ormai da tempo deserto, senza catturare nulla o quasi. E la tua Teresa in mezzo a loro.

Il destino di questo becchino del nostro pianeta non mi preoccupa granché, solo i marinai di coperta mi fanno pena, quei poveracci birmani, vietnamiti, cambogiani o che so io. Che colpa hanno se un’industria ittica impazzita sta compiendo un biocidio irreversibile? A casa loro non possono né lavorare né sfamarsi, perché i nostri enormi trawler svuotano i fondali marini. Così s’imbarcano su questi nostri aspirapolvere giganti e portano a termine la catastrofe, il che potrà forse per un altro paio d’anni dare da lavorare e da mangiare a loro, ma sicuramente non ai loro figli.

Quando li vedo penso a mio padre. Ti ho raccontato di sicuro che lui, come tanti altri portoghesi, negli anni Sessanta e Settanta s’imbarcava sulle vostre navi frigorifere per macellare, sfilettare e congelare il pesce a cottimo. Si sa, è una cosa che fate fare agli altri. Ti ho detto che alla fine ha lavorato persino per la DDR, perché trovava inumane le condizioni di lavoro in Occidente? Peccato, vorrei che lo avessi conosciuto. Anche se, a ripensarci, se fosse venuto a sapere che me la facevo con un tedesco cinquantaseienne divorziato due volte, mhmm…?!?

Mi aspetta un bel programma. Tra quattro giorni dovrò spedire il prossimo resoconto, perciò mi faranno entrare di nuovo nella sala radio e ti potrò spedire una mail. Purtroppo prima di allora non avrai mie notizie. Mi pesa non vederti per tanto tempo. Conto i giorni.

Ci stiamo dirigendo verso una nuova zona ed è già buio, per cui non posso più fare granché. Il dispositivo per la cattura lo controllo dopo la prima pesca. Poi mi faccio un altro giro sottocoperta per impratichirmi del posto, così da non essere d’impiccio domani. Magari riesco anche a rendermi utile. Sull’Ariana hanno apprezzato molto il mio aiuto. Più dimenticano perché sono qui, meglio è.

Le schede e i vetrini per gli otoliti mi aspettano. Non vedo l’ora di riabbracciarti. Spero che nella rete non finiscano dei piccoli delfini o delle foche. Sentirli urlare mi spezza sempre il cuore. Tagliare e sterilizzare il muso di una foca per mettere i denti sotto sequestro è davvero l’ultima cosa che vorrei fare. Ti bacio e ti abbraccio. Teresa.

3. DI MELO

La giovane donna si stava scostando le ciocche castano chiaro dal volto, come per leggere qualcosa che si trovava sul tavolo davanti a lei. Nella mano sinistra ardeva una sigaretta. Il fumo serpeggiava nell’aria calma. Sedeva a tavola da sola, ma c’erano due bicchieri. Evidentemente era in compagnia.

Alessandro Di Melo deglutì. La persona nello scatto era così reale da suscitare stupore. E dire che non avrebbe dovuto sorprendersi. Qualsiasi buon telefonino scattava immagini del genere. Quanto al luogo, difficile dirlo. Un ristorante? Un bar? Un hotel? Nella foto successiva la donna guardava direttamente nell’obiettivo e sorrideva. Di Melo cercò di far finta di niente.

Sentiva su di sé lo sguardo gelido di Ignacio Buzual, così girò la testa per un attimo. L’uomo era seduto di fronte a lui, all’altro capo del tavolo nella sala riunioni. Suo figlio Ibai gli era accanto, chino su un laptop, e sistemava il videoproiettore appeso al soffitto. A parte loro non c’era nessun altro.

Di Melo si concentrò nuovamente sullo schermo. Seguirono altre foto. Ora c’era un uomo seduto al tavolo con lei. Una rapida sequenza d’immagini mostrò i due da angolazioni diverse. Forse sui trentacinque, pensò Di Melo. Genere lupo di mare. Capelli ondulati e castani. Idem la barba. Tratti regolari e gradevoli, che cadevano subito nel dimenticatoio. Non per sua figlia però. In una foto metteva la mano su quella dell’uomo e gli diceva qualcosa che Di Melo non sarebbe mai venuto a sapere.

“Steve Riess,” sentì dire a Ignacio. “Canadese. Ha viaggiato due volte su questa Watson, finendo poi nella lista dell’Interpol. Se va in Europa o in America finisce agli arresti. Purtroppo gli australiani lo lasciano tranquillo e può andare e venire come vuole.”

Di Melo non rispose. Allora? Cosa cambiava? Che gli importava di quello Steve Riess? E soprattutto: dove diavolo aveva recuperato quelle immagini, Buzual?

“Quindi è tua figlia?” proseguì Ignacio dopo una pausa.

Di Melo annuì senza dire una parola. Certo che lo era. Non vedeva Ragna da cinque anni, né lei aveva dato segni di vita. Ma l’aveva riconosciuta subito. Senz’alcun dubbio. Solo, non riusciva ancora a cogliere la portata della questione. Di Melo era uno che rifletteva volentieri – in fin dei conti lo pagavano per questo, anche molto bene – ma non sotto pressione. Era un bravo stratega, ma quello era un incubo.

In quel momento una giovane donna dai capelli neri stava sorridendo all’obiettivo. Era chiaramente amica di Ragna, perché nella foto successiva si vedevano a braccetto davanti a qualche tempio asiatico. In vacanza?

“Chi le ha scattate?” domandò. Lo aveva già chiesto, ma Buzual continuava a non rispondere. “Dopo, Alessandro. Ibai ti spiegherà tutto. La tipa coi capelli scuri era sulla nostra nave. Portoghese. Teresa Carvalho. È tutto, Ibai?”

L’interessato annuì e guardò Di Melo con sospetto e avversione.

“Devo fare una telefonata,” annunciò il capo alzandosi. “Torno subito.”

A Di Melo non restava che aspettare. Aveva capito che si trattava di qualche incidente a bordo di una delle navi di Buzual. O almeno così era sembrato quando cinque giorni prima la segretaria dell’armatore spagnolo lo aveva chiamato chiedendogli di andare urgentemente a Vigo. Di Melo si trovava a Londra per degli impegni improcrastinabili. Due giorni a Mosca. E Francoforte. Poi però aveva udito il nome di Ragna e si era precipitato.

Si ricordava a malapena di Buzual. O meglio: aveva rimosso per quanto possibile ciò che lo legava a quell’uomo. Per precauzione aveva fatto cercare e caricare sul server dell’ufficio i vecchi dossier, per studiarseli mentre era al Charles de Gaulle in attesa del volo per Vigo. Erano passati più di dieci anni da quando aveva lavorato per Ignacio Buzual. All’epoca era stato un buon affare. Una delle navi di Buzual aveva pescato merluzzi in un’area protetta dell’Antartide ed era stata beccata dalla guardia costiera australiana. Le autorità avevano inseguito il peschereccio per quattromila miglia per poi arrembarlo con l’aiuto di mercenari sudafricani e trainarlo fino a Perth, dove era stato intentato il processo all’equipaggio. Per Di Melo e la sua squadra non era stato difficile ottenere la scarcerazione: l’accusa sul piano giuridico non reggeva e il diritto internazionale marittimo era decisamente fumoso. L’equipaggio era stato assolto perché nessuno era riuscito a dimostrare in maniera certa che il pesce trovato a bordo provenisse dall’area incriminata. Gli australiani avevano comunque trattenuto la nave e in seguito l’avevano distrutta. Anche questa mossa era illegale e continuava a impegnare le corti. Ma in linea di principio Buzual se l’era cavata a buon mercato, con perdite materiali che era stato in grado di assorbire. I suoi uomini erano ormai tornati all’opera da un bel pezzo, trovando nuovi modi per acchiappare il pesce tanto ambito. Solo Di Melo aveva pagato uno scotto molto alto per quel lavoro maledetto: sua figlia! Ragna si era imbarcata sulla nave inseguitrice e aveva assistito al processo. Dopodiché non gli aveva più rivolto la parola.

Per quel motivo Di Melo ripensava malvolentieri ai tempi andati, quando aveva fatto affari con uomini come Buzual. Si trattava di una brutta fase della sua vita sia dal punto di vista professionale che personale. Come un idiota aveva avviato un’attività proprio poco prima che esplodesse la bolla di internet all’inizio del nuovo millennio, e si era quasi rovinato. Non con le azioni. Nemmeno allora era così sciocco. Ma dopo il crollo, per un po’, nulla aveva funzionato. Il business delle consulenze era collassato. I manager silurati si muovevano sul mercato come consulenti, affossando le tariffe. E dire che viveva proprio a Francoforte, uno dei centri del crack. Com’era stato possibile che il suo istinto l’avesse piantato in asso? A fatica era riuscito a tenere a galla la famiglia, accettando qualsiasi proposta gli venisse offerta e in qualsiasi parte del mondo.

Sua moglie aveva odiato Francoforte fin dal primo giorno. A Ylva non piaceva la Germania e detestava dover rimanere lì con Ragna mentre lui non era quasi mai a casa. Di Melo invece aveva pensato che un ritorno in Europa le sarebbe piaciuto. Francoforte era in una posizione strategica, Ylva sarebbe stata più vicina alla sua patria norvegese e Ragna avrebbe potuto finalmente studiare bene il tedesco, cosa che gli stava molto a cuore. Lui veniva dal Canton Ticino, ma gli studi a San Gallo e poi a Zurigo gli avevano aperto delle strade altrimenti inaccessibili. A interessarlo non era stata la lingua di Kant e Goethe, a cui preferiva Machiavelli e Dante. A fare presa su di lui era stato il Paese campione mondiale delle esportazioni. Aveva voluto capire come ragionavano i creatori di una delle economie più competitive del pianeta.

Ma le cose erano andate diversamente. Il passaggio di Ragna da una scuola internazionale a un liceo tedesco aveva causato alla ragazza una sorta di choc permanente; e Ylva aveva cominciato a bere. Quello stesso anno era scoppiata la bolla di internet. E un anno dopo, in seguito agli attacchi a New York, era crollata la Borsa. Poi era stato il turno del disastro Enron, del collasso di Arthur Andersen. Un massacro. Amici del settore che si sparavano, partner rovinati, telefonate di ex colleghi con l’acqua alla gola che lo supplicavano. E lui era impegnato a costruire la propria azienda in mezzo a quelle macerie.

A ripensarci, era stato il colpaccio della sua vita. Comprare quando il sangue scorre per le strade. Investire quando il fumo sale dalle rovine. Vecchie perle di saggezza sulla bocca di tutti. Ma chi aveva davvero il coraggio di farlo? E non l’avrebbe avuto nemmeno lui, se a suo tempo avesse adocchiato qualche alternativa. Ma non avendo scelta, nel suo portafoglio clienti era finita gente come Buzual. E grazie a quegli affari sporchi era finalmente riuscito a instaurare contatti con la SVG-Consulting, una rinomata società internazionale di consulenza. Ben presto, tuttavia, l’ufficio di Ginevra era stato ingrandito e lui aveva avuto l’occasione di essere della partita. Nel frattempo era diventato socio e la SVG-Consulting aveva ingoiato due grandi agenzie concorrenti. Non avrebbe più risposto alle chiamate di gente come Buzual. Ma adesso era lì e non aveva altra scelta. Ragna si trovava a Rangoon, era molto probabilmente insieme a un terrorista ambientale ricercato dall’Interpol e per giunta era finita nel mirino di questi pirati spagnoli della pesca. Un bel pasticcio.

Guardò furtivamente Ibai, che non fece caso a lui, impegnato com’era a trafficare con lo smartphone. La telefonata di Buzual stava durando più del previsto. Si alzò e andò alla finestra. Si stava facendo buio. Sotto il cielo plumbeo c’era l’Atlantico nero come la pece, e circa a metà strada tra lui e le acque scure dei punti illuminati marcavano la costa galiziana. La villa di Buzual si trovava in collina e col bel tempo la vista si estendeva fino alle isole davanti alla baia di Vigo. Un bel posto per una cattiva notizia. Osservò il proprio viso riflesso nel vetro, che sembrava dirgli: Lascia perdere, non puoi fare nulla per lei. Da tempo ha preso la sua decisione. Di non fare nulla. Impossibile aiutarla.

Il mondo era quel che era, nessuno poteva cambiarlo. Nemmeno sua figlia e il suo lupo di mare. L’unica domanda era da quale parte schierarsi. Solo i folli bazzicano volontariamente là dove le placche tettoniche si scontrano con i grandi interessi globali.